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: Copyright? No, copyleft

Copyright? No, copyleft

Abolire il divieto di copiare. Per liberare le opere dell’ingegno. E diffondere ovunque le idee e il sapere. È la nuova sfida etica della Rete

installazione alla Tate di Londra

Tanto tempo fa, nella società pre tecnologica, il diritto d’autore era una questione che riguardava una minoranza insignificante di persone: di solito chi scriveva un libro o componeva un’opera musicale. A tutti gli altri non importava nulla. È stato così per più di 250 anni: dalla prima legge sul copyright (1710, Inghilterra) fino agli anni ’70 del secolo scorso, quando si sono diffuse le fotocopiatrici e gli studenti universitari hanno cominciato a riprodurre pezzi di libri di cui avevano bisogno: le prime copie-pirata.

Poi è arrivata la rivoluzione digitale, che mettendo in comunicazione tra loro milioni di persone, di libri, di dischi, di idee, di scoperte, di articoli, di foto, di video, ha amplificato all’infinito il concetto di riproducibilità tecnica, trascinando la questione della proprietà intellettuale nella vita quotidiana di chiunque abbia un collegamento a Internet e può quindi riprodurre con un paio di clic ciò che in teoria è ancora coperto da divieto di copia.

«Negli ultimi vent’anni attorno al copyright è cambiato tutto, tranne le norme che lo regolano», dice Lawrence Lessig, uno dei massimi studiosi della questione. Già perché le leggi in merito sono rimaste legate al modello di società in cui sono nate, cioè quello industriale e pretecnologico. E queste prevedono, in sostanza, che le opere dell’ingegno, un libro, una canzone, una foto, ma anche una barzelletta, non possano essere in alcun modo riprodotte né utilizzate e men che meno alterate da nessuno.

Bill GatesCon la Rete e il pc, i limiti tecnici alla diffusione e alla condivisione delle informazioni si sono azzerati. E la prassi è andata nella direzione opposta rispetto alla legge: milioni di copiature e di remix su milioni di siti, di blog, di telefonini. A fronte di questo scarto tra norme obsolete e crescente condivisione illegale di opere dell’ingegno, la società (imprese, intellettuali, consumatori, politici) ha reagito in modi diversi. Da un lato ci sono i conservatori puri dell’esistente, il cui capofila è Bill Gates. Secondo lui quello attuale americano «è il miglior sistema di proprietà intellettuale» possibile. Uomo di certezze, il fondatore di Microsoft aggiunge che nella sua mente «non c’è alcun dubbio in proposito». La posizione di Gates è viziata da un palese conflitto d’interessi: avendo creato software che nell’attuale sistema gli permettono di essere l’uomo più ricco del mondo, non sente alcun bisogno di modifiche in senso libertario. Tuttavia dalla parte di Gates ci sono anche delle ragioni e sono quelle tipiche dell’economia liberal-capitalista, secondo le quali senza l’incentivo dell’arricchimento personale garantito da copyright e brevetti nessuno sarebbe stimolato a inventare e a competere con le invenzioni altrui.

Dalla parte opposta ci sono i cultori del copyleft, termine scaturito da un ricco gioco di parole (“left”, sinistra, è il contrario di “right”, che in inglese vuol dire diritto ma anche destra; e “left” è anche il participio passato di “leave”, lasciare: sicché copyleft evoca il “rinunciare alla proprietà”, il “lasciare che si copi liberamente”).

Linux Club di Roma

I vessilliferi del copyleft – una moltitudine battagliera in Rete – detestano Gates e il concetto di “software proprietario”. Sostengono che qualsiasi opera dell’ingegno è il frutto di un confronto sociale e quindi deve essere messa a disposizione di tutti, perché tutti possano usufruirne ed eventualmente migliorarla. Si occupano particolarmente di brevetti informatici, ma sono convinti che il concetto di copyleft sia estensibile anche agli altri campi della creatività, come i libri e i dischi. Le loro parole d’ordine sono “condivisione” e “libera circolazione del sapere”. Secondo Bill Gates, si tratta di «comunisti di nuovo tipo che vorrebbero eliminare gli incentivi per chi produce musica, film o programmi informatici».

A parte qualche frangia, i teorici del copyleft non negano l’esistenza di diritti dell’autore sulla sua opera: l’obiettivo del loro inpegno è invece «conviliare l’esigenza di un giusto compenso per il lavoro svolto da un autore con la tutela della riproducibilità di un opera e del suo uso sociale», come scrivono quelli del Collettivo Wu Ming, che da anni teorizzano e applicano il copyleft. Sono convinti che un’opera diffusa su Internet non danneggi economicamente il suo autore, ma al contrario gli convenga, perché ne fa circolare nome e idee, gli dà fama, e sul lungo termine, attraverso il cosiddetto marketing virale, gli fa vendere di più sul mercato tradizionale (librerie e negozi). Pensano che proteggere un’opera per 70 anni dopo la morte dell’autore non abbia nulla a che fare con l’incentivazione, ma sia solo un modo per garantire profitti alle corporation che acquistano i diritti.

Lawrence LessigIn un ampio territorio intermedio tra il pragmatismo di chi difende il copyright e l’idealismo di chi sogna lo sharing totale c’è il gruppo di studiosi e giuristi che ruota attorno al progetto Creative Commons. Da un punto di vista teorico, si tratta di pensatori più vicini al copyleft che al copyright, perché il loro movimento nasce in opposizione all’avidità delle major (Walt Disney, Sony, Time Warner) che fanno profitti con le royalties. Il loro capofila è un docente di Stanford, il citato Lawrence Lessig, che da anni combatte le pretese delle corporation e scrive libri sulla proprietà intellettuale (l’ultimo, “Cultura libera” esce in Italia a fine febbraio per Apogeo).

Lessig e il suo gruppo di lavoro non si limitano a teorizzare e a polemizzare, hanno anche elaborato nuove forme di diritti d’autore per provare ad affrontare più flessibilmente il rapporto tra autori e società digitale, riducendo la forbice tra norme vecchie di secoli e realtà internettiana esplosa negli ultimi dieci anni. Così è nato il progetto Creative Commons, che cerca di definire le sfumature esistenti tra la classica frase “Tutti i diritti riservati” e il suo contrario assoluto: “Nessun diritto garantito”. L’idea di base è che un’opera (dal libro al disco, dall’articolo di giornale al blog) possa avere vari e duttili gradi di tutela dell’ingegno: ad esempio, un autore decide che la sua creazione può essere copiata, ma non a fini di lucro; o stabilisce che può essere riprodotta, ma soltanto con citazione della fonte; ancora, che può essere copiata, ma solo integralmente e senza tagli; che è sotto pieno copyright, ma solo fino alla morte del suo autore e non i 70 anni successivi. E così via, in uno sforzo di flessibilizzazione delle norme che contempla tanto i due estremi (copyright totale e nessun copyright) quanto i vari livelli intermedi, in modo da coprire tutte le aree esistenti di produzione di contenuti: dagli autori professionisti a chi scrive per passatempo, dai fotografi ai blogger. Non è detto infatti che l’unico incentivo di un autore sia quello finanziario: un docente universitario non si illude di diventare ricco con i suoi saggi, ma a essi affida la costruzione della sua carriera e preferisce che circolino molto, anche gratis.

In Italia le licenze di Creative Commons sono state lanciate meno di due mesi fa, grazie a un gruppo di studio promosso da Marco Ricolfi, docente di Scienze giuridiche a Torino. Alla fine di gennaio a Roma si è tenuta la prima Settimana delle libertà digitali con incontri e conferenze per promuovere il progetto nel nostro paese. L’obiettivo di massima è quello di riformare le rigide leggi attuali sul copyright, ma è anche e soprattutto creare una consapevolezza diffusa e una cultura prevalente in cui la condivisione delle conoscenze (quindi la scelta da parte di un autore e/o di un editore di avvalersi dei propri diritti nel modo più aperto possibile) venga vissuta da tutti come un valore positivo, con un feedback di simpatia e ammirazione (e quindi maggiore propensione all’acquisto) nei confronti di chi non chiude a chiave la propria opera.

Centro di documentazione sul Muro di Berlino

Del resto, seppur in fasce ancora di nicchia, qualcosa di simile sta già avvenendo nel mondo del software, dove Bill Gates è costretto a crescenti sforzi e a spese milionarie per controbattere l’antipatia planetaria nei confronti dei suoi eccessi proprietari, che inducono sempre più individui, enti pubblici e aziende ad avvalersi, quando possibile, di software alternativi e aperti. Le grandi campagne d’opinione contro chi, a fini di profitto, impedisce ogni condivisione della propria invenzione hanno lo scopo di modificare la percezione sociale del problema al punto in cui un giorno chi chiuderà nella cassaforte del copyright la sua creazione subirà danni d’immagine superiori ai benefici economici immediati.

In prospettiva uno degli aspetti più interessanti di tutta la vicenda sta nel fatto che la stessa ondata ha ormai tracimato anche su aziende che operano in altri campi, come quelle agricole, zootecniche, farmaceutiche, biotech, genetiche e così via.

Di recente sono sorte organizzazioni indipendenti come Bios (Biological Innovation for Open Society) e Science Commons che applicano ai temi del biotech e della gnomica i principi del Creative Commons. Anche loro comunisti, come direbbe Gates? Difficile pensarlo: il progetto Bios, per esempio, è nato con la sovvenzione di un milione di dollari della Fondazione Rockefeller. La distribuzione di tecnologie agricole aperte e di nuove medicine nel Terzo Mondo dipende in gran parte dal successo di queste iniziative. E per successo s’intende la capacità di trovare percorsi intelligenti per conciliare l’economia globalizzata (e quindi la ricerca incentivata dalla sete di profitti) con il bisogno etico di condividere conoscenze per il bene di più persone possibile. Anche per questo al Social Forum mondiale di Porto Alegre, a fine gennaio, io problema del copyright è stato tra i più discussi e lo stesso Lessig era tra i relatori. Come si vede, la questione dello scontro o dell’accordo tra i diritti dell’ingegno e i diritti del pubblico dominio nel XXI secolo riguarda proprio tutti. Anche chi non lo sa.

Quelle L'espresso

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